movie challenge 2015

Recensione: Castaway on the moon di Hae-jun Lee

Buongiorno a tutti e buon inizio marzo! Febbraio è volato e il mio unico rimpianto è non essere riuscita a mangiare neanche una frittella 🙁 spero voi ne abbiate mangiate anche per me! Ieri sera, o più correttamente ieri notte, mi sono guardata un film che avevo in lista da anni. Questo è il primo film coreano che ho visto e mi ha piacevolmente sorpreso, così spero capiti anche a voi se deciderete di guardalo.

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Titolo: Castaway on the moon
Titolo originale: Castaway on the moon
Regia: Hae-jun Lee
Anno: 2009
Durata: 116 min
IMDB

Kim è un uomo disperato, al punto che un giorno decide di saltare da uno dei più alti ponti di Seul sul fiume Han. Ma il tentato suicidio fallisce e Kim si ritrova il mattino dopo su un’isoletta in mezzo al fiume. Nonostante la città sia tutt’intorno, Kim non sa nuotare e non riesce a farsi notare da nessuno e deve rassegnarsi a fare il naufrago. Lo noterà, guardando dalla finestra con un cannocchiale, una donna che vive da anni segregata volontariamente in un appartamento e che si deciderà, affascinata da quella strana figura, a uscire dal suo eremitaggio metropolitano.

All’inizio conosciamo Kim, questo impiegato finito sul lastrico e pieno di debiti. Al fallimento del lavoro si somma il fallimento del tentato suicidio a seguito del quale si ritrova prigioniero su quest’isola in mezzo al fiume. Dopo un primo momento di disperazione, vede che pian piano riesce ad adattarsi a questa nuova situazione e diventa una sorta di Robinson Crusoe. Con il passare del tempo l’isolotto non rappresenta più per lui una prigione, ma si trasforma nella sua nuova casa. Nonostante la sventura dell’isolamento dal resto della città, infatti, riesce a trovare una nuova speranza e la volontà di vivere. C’è un momento del film in cui lui trova una bustina di condimento per gli spaghetti e proprio il voler riuscire a fare degli spaghetti con quel poco che trova sull’isola diventa il suo nuovo obiettivo.

Successivamente facciamo la conoscenza di questa ragazza (di cui non sappiamo il nome) che ha scelto di ritirarsi dalla vita sociale isolandosi in camera sua. Non esce da tre anni e per quanto assurdo possa sembrare questo suo stile di vita, lei ci descrive come avviene la sua giornata tipo. L’unica sua finestra sul mondo è questa macchina fotografica con la quale ama fotografare la luna e i vari angoli della città quando sono deserti. Ed è proprio durante una delle prove di evacuazione della città che scopre dell’esistenza di Kim. Da qui in poi comincerà a tenerlo costantemente sott’occhio e per quanto incredibile, i due (entrambi confinati nel loro mondo) inizieranno a tenere una corrispondenza.

Il film vuole lanciare un campanello d’allarme riguardo le varie forme di alienazione conseguenti ad una società che gira attorno al denaro e all’apparenza; non c’è quindi da stupirsi che alcune persone non riescano ad identificarsi e integrarsi in una realtà del genere. La cosa che più sconvolge sono le conseguenze estreme a cui questi sentimenti di alienazione possono portare, come il suicidio o il fenomeno degli hikikomori (coloro che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale spesso cercando livelli estremi di isolamento e confinamento). Nonostante i temi che affronta siano di un certo peso, il film riesce in alcuni punti a farci sorridere inserendo i protagonisti all’interno di alcune scene davvero esilaranti, ma senza la pretesa di accaparrasi la simpatia dello spettatore.

Dall’ambientazione alla trama decisamente insolite, ma allo stesso tempo molto interessanti, ho davvero apprezzato il film in tutte sue sfaccettature e ha suscitato in me la curiosità verso il cinema coreano. L’unica pecca è la locandina che, detto tra noi, non è il massimo, ma in realtà raffigura tutti gli elementi chiave del film, quindi mi tocca accettarla così com’è.


Recensione: Little Miss Sunshine di Jonathon Dayton, Valerie Faris

Dopo due giorni tra valli bresciane e trentine in compagnia di alcuni amici rieccomi di nuovo qui! Questa settimana mi sono trovata un po’ indecisa nel decidere il film da recensire, ho infatti spuntato dalla mia Movie Challenge la voce film documentario con “Life in a day”. Molto bello ma non volevo iniziare la settimana parlando di questo film. Ieri sera ho avuto un’illuminazione e ho visto “Little Miss Sunshine”, un film forse non troppo conosciuto o che pochi ricordano. Anni fa avevo visto per caso il trailer, ma onestamente non mi aveva entusiasmato, quindi di fatto non è mai comparso all’interno della mia lista. Una cosa però non ho mai dimenticato: questo furgoncino volkswagen giallo (che più giallo non si può) e oggi finalmente riesco a parlare di questo film che per anni si è rifugiato negli angoli più nascosti della mia mente.



Titolo: Little Miss Sunshine
Titolo originale: Little Miss Sunshine
Regia: Jonathon Dayton, Valerie Faris
Anno: 2006
Durata: 101 min
IMDB

Sheryl, moglie e madre per vocazione, alle prese con il secondo matrimonio, fatica a reggere le fila di un nucleo familiare assemblato a suon di copia-incolla: Richard, marito/padre alla ricerca ossessiva di un improbabile successo editoriale, Dwayne e Olive, rispettivamente adolescente ribelle e mini-reginetta di bellezza di provincia, il nonno, cacciato dalla casa di cura perché cocainomane, e, ultimo in ordine di arrivo, lo zio Frank, fratello di Sheryl reduce da un tentato suicidio. Una sgangherata famiglia, quella degli Hoover, che si ritroverà in viaggio su un cadente pulmino verso il concorso di bellezza per bambine più famoso della California, Little Miss Sunshine, per cui la piccola Olive è stata selezionata.

Davanti a un film del genere non sai bene cosa aspettarti o per lo meno così è stato per me. La storia che si svolge letteralmente on the road vede come protagonisti questa famiglia sgangherata che vuole fare di tutto per far contenta la figlia e farla partecipare a questo concorso di bellezza. Il pulmino giallo (che personalmente adoro) diventa così il teatro su cui ci vengono presentati i vari personaggi e il viaggio rappresenta per tutti loro l’occasione per riconciliarsi con loro stessi prima di tutto e poi con il resto della famiglia.

Durante il tragitto si succedono una serie di eventi esilaranti alternati da momenti più spiacevoli che mettono a dura prova i protagonisti. Dietro l’apparenza, ciascuno sta lottando per superare le proprie sconfitte e ottenere ciò che vuole. Quindi in un certo senso, sostenere Olive nel suo desiderio di partecipare al concorso di ‘Little Miss Sunshine’ rappresenta la possibilità dei genitori di poter dare alla propria figlia il suo piccolo momento di gloria.

Il film si può definire una sorta di tragicomica perché alcune scene ti fanno sorridere lasciandoti una punta di amaro in bocca. Ho apprezzato molto come il film venga raccontato in maniera spontanea e diretta, scandito da scambi di battute incalzanti. Le cose che scopriamo riguardo ai personaggi ci vengono spiegate grazie alle domande che la piccola Olive rivolge ai suoi familiari. La sua curiosità verso il mondo degli adulti la spinge sempre a porre domande per capire la situazione.

Se c’è una cosa che non ho sopportato del film è l’atteggiamento del padre, sempre pronto a infierire e ossessionato dal perseguire i nove step (da lui ideati) per essere dei vincitori nella vita. Questa suo affannarsi infatti, non fa altro che rovinare sempre più il rapporto con la sua famiglia fino quasi a un punto di non ritorno. Come finisce la storia? Beh, non posso dirvi se Olive vince o meno il concorso, ma posso solo garantirvi che il finale sorprendente e inaspettato non deluderà le vostre aspettative.


Recensione: La custode di mia sorella di Nick Cassavetes

Ciao a tutti! Questa settimana ho visto un paio di film ed ero indecisa su quale recensire ma alla fine ho deciso di parlare di un film che ho voluto rivedere dopo tanto tempo: “La custode di mia sorella”. Ma una volta deciso mi sono ritrovata a fissare lo schermo del mio computer a lungo prima di metter giù due righe di senso compiuto. Per fortuna poi mi è venuta l’ispirazione e ho cominciato a picchiettare sulla povera tastiera del computer a ritmo sostenuto (immaginando la Kia e la Mon che mi dicono come sempre di non distruggere i tasti).

L’undicenne Anna Fitzgerald è nata grazie alla fertilizzazione in vitro con le caratteristiche necessarie per poter salvare la sorella maggiore Kate, malata da tempo di leucemia. Oltre ad assistere al calvario della sorella, Anna si è sottoposta a numerose analisi, trasfusioni e iniezioni per salvare Kate. Ma quando la sorella ha bisogno di un rene, Anna però si rifiuta di essere usata. Sente infatti di essere stata messa al mondo al solo scopo di salvare la sorella. Anna così si rivolge ad un avvocato e fa causa ai genitori per avere l’emancipazione medica ed il pieno controllo del proprio corpo.


 

Titolo: La custode di mia sorella
Titolo originale: My sister’s keeper
Regia: Nick Cassavetes
Anno: 2009
Durata: 109 min
IMDB

Il film si concentra sull’ultimo periodo di vita di Kate e noi veniamo accompagnati all’interno della realtà della famiglia attraverso la voci fuori campo dei genitori e dei fratelli che ci raccontano come ciascuno di loro convive con la situazione di Kate. Infatti vi è un continuo alternarsi tra presente e momenti del passato, in cui vediamo il peggioramento di Kate. La cosa che mi piace del film è che la sorella malata non è l’unico nucleo a cui gira la storia, ma il regista vuole farci notare che i genitori hanno sempre “sfruttato” la sorella minore come pezzo di ricambio. Scopriamo quindi che dietro una facciata di serenità familiare, si nascondono molte crepe che stanno distruggendo la famiglia.

This is it. I know I’m going to die now. I suppose I’ve always known that. I just never knew when. And I’m okay with it. Really. I don’t mind my disease killing me. But it’s killing my family, too.

Sebbene Kate abbia già accettato la realtà dei fatti, sua madre non vuole arrendersi, vuole fare il possibile affinché lei possa continuare a vivere. Il suo amore per la figlia la rende cieca a tal punto da non vedere come le sua azioni nei confronti degli altri figli non siano giuste. Kate se ne rende conto e per questo chiede ad Anna di far causa ai genitori, perché vuole far capire che è ora di smettere di lottare, lei infatti vuole trascorrere insieme con la famiglia gli ultimi momenti.

Remember that summer when I went away to camp? And I was so scared that I’d miss you so much guys. Before I got to the bus you told me to take a seat on the left side right next to the window, so I’d be able to look back and see you there. I get the same seat now.

I flashback felici in cui si vede Kate in salute sono accompagnati da canzoni azzeccate che amplificano la drammaticità della storia. Vediamo una giovane Abigail Breslin nei panni di Anna che dimostra grande padronanza del personaggio e un’inaspettata Cameron Diaz che interpreta la madre in maniera molto convincente (nonostante la vediamo soprattutto in commedie, la sua presenza in un film del genere devo dire che non stona).

Se dovessi descrivere il film con una parola sarebbe intenso. Questo perché fin da subito ti mette davanti alla realtà dei fatti. Si apre infatti con la voce di Anna che ci racconta come la sua nascita non sia frutto del caso. Ma oltre al dramma in sé, il modo sapiente in cui il regista racconta le dinamiche familiari, i conflitti interni, le speranze e le paure dei nostri protagonisti è ciò che rende davvero emozionante questo film. La storia viene raccontata in maniera semplice e genuina, senza filtri, in modo che lo spettatore si senta parte della famiglia e partecipi attivamente alle vicissitudini narrate. Infatti questo film ha messo nuovamente a dura prova la mia sfera emotiva perché le lacrime zampillavano dai miei occhi. Diciamo che al regista piace raccontare storie strappalacrime infatti, dopo aver raccontato di un amore ostacolato ne “Le pagine della nostra vita”, ritorna con un film di spessore sulla lotta contro la leucemia (ho pianto così tanto che dovrebbe essere illegale fare film del genere).


Recensione: Il colore viola di Steven Spielberg

Buongiorno a voi fedeli lettori che continuate a spulciare i nostri articoli! Ultimi settimana di sessione per noi e poi per un po’ non ci sentirete parlare più di esami (almeno fino a giugno xD). Io intanto per un’altra manciata di giorni continuo la mia personale battaglia con la fisica sperando che si risolva con un esito positivo. Questa settimana la iniziamo parlando di un film che risale a un po’ di tempo fa e che ho scoperto su consiglio di un’amica che mi ha caldamente inviato a vederlo.

Siamo nella Georgia degli anni ‘20 e il film racconta della drammatica storia di Celie, un’adolescente di colore che viene violentata da quello che ritiene sia suo padre e dà alla luce due figli che le vengono portati via. L’uomo la cede in sposa ad Albert, un vedovo con quattro bambini, di colore anche lui, uomo violento e manesco. Celie si ritrova schiava di questo uomo che la disprezza, la maltratta e le nega il contatto con la sorella. Ma questo è solo l’inizio della storia, infatti col passare degli anni le vite di nuovi personaggi si intrecciano alle vicende di Celia che solo molto tempo dopo riuscirà a riscattarsi.



Titolo: Il colore viola
Titolo originale: The color purple
Regia: Steven Spielberg
Anno: 1985
Durata: 154 min
IMDB


Il tema della pellicola non è il razzismo contro le persone di colore come può sembrare a prima vista, ma il vero nucleo di tutto il film è racchiuso nella discriminazione con cui gli uomini trattano le donne, che non fa distinzione tra bianchi e neri. Le varie donne che si incontrano, man mano che si procede col film, hanno tutte subito soprusi o comunque lottato per cercare di farsi rispettare, per riuscire a guadagnare un po’ un’identità propria o la libertà di fare quello che vogliono.

La storia è di per sé molto intensa ma la ciliegina sulla torta è la recitazione di Whoopi Goldberg nei panni di Celie. Lei è una ragazza che difficilmente esterna quelli che sono i suoi veri pensieri, di conseguenza riusciamo a capire i sentimenti di lei grazie alla strabiliante ed espressiva interpretazione della Goldberg: le sue mimiche facciali e i primi piani dei suoi sguardi riescono davvero a penetrarti e farti percepire il suo stato d’animo, senza dover utilizzare troppe parole.

Il film procede con un ritmo abbastanza pacato, in modo da condurti lentamente nel mezzo dei fatti narrati e, senza neanche rendertene conto, sei lì sul divano che vivi il dramma in prima persona. Ma dopo la pioggia torna sempre il sole e tutta questa sofferenza permette alle nostre protagoniste di uscirne fortificate e vincenti; in particolar modo Celie riesce a dimostrare l’importanza del suo ruolo attraverso i ripetuti tentativi di affermazione di superiorità morale, sempre sostenuta dalla sua incrollabile fede. Queste donne sono le figure più forti del film, infatti con il passare degli anni gli uomini invecchiano soli, mentre Celie e le sue compagne riescono finalmente a conquistare una nuova vita felice e serena.

Molto importanti sono i colori, infatti il regista alterna sapientemente inquadrature di interni caratterizzati da colori spenti e tristi con riprese di ambienti esterni dai colori luminosi e vivaci. Perchè il film s’intitola “Il colore viola”? Il viola è il colore di un campo di fiori dove la storia ha inizio e dove questa finisce, ma in un certo senso è anche il colore che rappresenta la libertà tanto agognata dalle donne del paese dove vive Celie.

Con questo film Spielberg si stacca dal solito genere di avventura dando prova di riuscire a raccontare questa storia con una maestria tale che alla fine del film sono scoppiata a piangere perché le emozioni e la loro intensità erano veramente forti che alla fine mi sono lasciata andare.
Dopo quindi essere stata vittima di questo turbinio di emozioni, posso spuntare orgogliosamente dalla mia Movie Challenge “un film con un colore nel titolo”!